Un divorzio da Oscar
Dal titolo del film del 1961 di Pietro Germi è stato parafrasato il termine di “Commedia all’italiana”, segnando l’inizio di un nuovo modo di fare film. Cominciamo proprio da “Divorzio all’italiana” che ha vinto tre Oscar nel 1963 e un Premio speciale a Cannes nel ’62 un ragionamento sui titoli che hanno fatto grande questo genere.
Commedia e satira allo stesso tempo caratterizzano queste pellicole che talvolta tendono al grottesco e all’umorismo nero. Il capolavoro di Germi fa conoscere un nuovo genere che di li a poco diventerà popolare in tutto il mondo.
Il mio giudizio personale è 4 su 5. Non è l’opera più completa dell’autore ma è un’ottima rampa di lancio sia per lo stesso Germi a livello internazionale sia per il nuovo filone cinematografico che inizia ad acquisire sempre più importanza.
La trama del film è ispirata dal libro “Un delitto d’onore” di Giovanni Arpino, che parlava di una drammatica vicenda, e viene trasformata in una storia con risvolti comici e pungenti in critica alla mancanza di una legge sul divorzio e all’Articolo 587 del Codice Civile italiano, articolo sul delitto d’onore (che verrà abolito vent’anni dopo!).
Ferdinando Cefalù (Marcello Mastroianni) è un nobile siciliano sposato da dodici anni con l’assillante Rosalia (Daniela Rocca) per la quale ha perso totalmente ogni interesse. Nel frattempo si innamora di sua cugina Angela (Stefania Sandrelli), giovane ragazza che lo rapisce con la sua avvenenza e che ricambia il suo amore.
Decidendo di sfruttare la legge sul delitto d’onore – secondo la quale un marito adirato e sconvolto da un tradimento della moglie era legittimato ad ucciderla dovendo scontare soltanto una pena ridotta – Ferdinando cerca in ogni modo di far cadere la moglie nelle braccia di un amante, così da poter coglierli in flagrante, ucciderli, subire una pena di pochi anni e passare il resto dei suoi giorni con Angela.
“Divorzio all’italiana” (come anche “Sedotta e abbandonata” e “Signore e signori”) racchiude in sé l’essenza delle proteste e dei cambiamenti sociali degli anni Cinquanta e Sessanta, ed è questo uno dei motivi per cui dovrebbe essere visto almeno una volta nella vita. Inoltre questi film rappresentano anche il simbolo della grande prova di coraggio fatta dall’autore, il quale si è esposto più e più volte parlando apertamente di alcuni tabù della società.
Pietro Germi nel corso della sua carriera fu spesso biasimato per le sue posizioni politiche e per la sua continua critica alla concezione della vita nel sud d’Italia, zona con la quale aveva un rapporto di amore e odio.
Ambienta le sue produzioni – tra cui lo stesso “Divorzio all’italiana“ e “Sedotta e abbandonata”- in Sicilia, regione che forse fra tutte , all’epoca, era la più retrograda. Nei primi anni ’60 le trame dei suoi film venivano considerate scomode, ma al giorno d’oggi da queste stesse storie ci si può rendere conto di quanti passi avanti siano stati fatti nel corso degli anni, soprattutto riguardo alla condizione delle donne, iniziando con l’abolizione dell’assurdo articolo sul delitto d’onore.
Proprio l’onore, soprattutto nel meridione, era un principio di vita fondamentale da rispettare. Agli occhi degli altri la reputazione della famiglia era vitale e, se una qualunque azione fosse andata ad intaccare l’onore di un uomo, questa doveva essere “lavata col sangue”; tante trame di film della Commedia all’italiana fanno leva proprio su questo punto dando vita a eventi esilaranti e quasi paradossali, ma sempre con quel pizzico di amarezza e disapprovazione.
Marcello Mastroianni non delude mai con il suo fascino da latin lover (termine con cui odiava essere definito) e con la sua naturalezza nel portare in scena personaggi ogni volta diversi.
La graziosa e giovanissima Stefania Sandrelli con questo film inizia ad ottenere i primi ruoli in grandi produzioni cinematografiche (e tre anni dopo sarà anche la protagonista in “Sedotta e abbandonata”, sempre di Germi).
Leopoldo Trieste e Lando Buzzanca sono spassosissimi con le loro tipiche caratterizzazioni dei personaggi più strambi e particolari.
di Elisa Ciminelli